RAIGAMBRE

Revista Cultural Hispánica

domingo, 1 de febrero de 2015

INCHIESTA SUL DARWINISMO

 
 
Presentamos a continuación el artículo en su original italiano que ha escrito para RAIGAMBRE nuestro amigo y corresponsal sardo, Fabio Emozione. Publicamos en breve su traducción al español: versión en español aquí. El artículo aborda el tema principal del libro "Inchiesta sul Darwinismo" de Enzo Pennetta, sin traducir al español todavía. 
 
“Inchiesta sul Darwinismo”, Come si costruisce una teoria. Scienza e potere dall’imperialismo Britannico alle politiche ONU.


Enzo Pennetta


 
Por Fabio Emozione
 
Il consenso sociale deriva sempre da una data interpretazione della realtà, condivisa dalla maggioranza di un popolo o nazione. Ebbene, il Darwinismo altro non fu che un potente strumento di manipolazione delle masse, nonché di creazione di un solido consenso politico per le élites al potere, sia all'interno della Gran Bretagna, sia negli sconfinati possedimenti dell'Impero Britannico, nel corso del 1800.
 
Allorché l’Inghilterra si avviava a divenire una potenza militare globale, pronta a tutto per aprire e creare nuovi mercati per i suoi prodotti e industrie, sedicenti scienziati come Francis Bacon (autore del libro utopistico “La nuova Atlantide”, nonché sedicente padre del metodo scientifico induttivo) avanzarono l’idea di legittimare il potere statale assoluto della monarchia Inglese tramite la Scienza.
 
Da questo spunto, nacque la Royal Society (nome ufficiale: The President, Council, and Fellows of the Royal Society of London for Improving Natural Knowledge), dove una nuova casta sacerdotale, tutta composta di “scienziati”, avrebbe supportato e sponsorizzato il nascente Impero Britannico.
 
Come per ogni casta sacedortale serviva, però, una nuova Bibbia, capace di fornire una nuova visione del Mondo, convincente, accattivante, affascinante.
 
Una ghiotta occasione si presentò, allorché Charles Darwin pubblicò – nel 1859 – il saggio “L’origine della specie”. Il racconto di Darwin si prestava bene a fungere da nuovo, moderno e seducente mito della creazione.
 
Per sviluppare la sua teoria, Darwin si basò sugli scritti dell’economista Thomas Malthus e non partì - invece - da osservazioni naturali, da cui poi formulare una ipotesi di lavoro, cioè una vera e propria teoria scientifica.
 
Va ricordato brevemente che Malthus, senza alcuna base sperimentale e clamorosamente smentito da ripetuti casi storici (come la grande carestia Irlandese 1845-1952), sosteneva che mentre da un altro l’economia in genere cresce secondo una progressione aritmetica (0,1,2,3,4,5, etc.), la popolazione – al contrario – cresce secondo una progressione geometrica (0,1,2,4,8,16,32, etc.). Tale stato di cose porterebbe presto ad una scarsità generalizzata delle risorse in rapporto alla popolazione esistente.
 
Date queste (inesatte)premesse, Malthus giustifica ogni mezzo possibile per il controllo delle nascite, con speciale riguardo alle classi meno agiate, in special modo la classe operaia e le sempre crescenti plebi urbane nell’Inghilterra industrializzata di metà ‘800.
 
Anche la “mano invisibile” (la nota metafora utilizzata dall’economista Adam Smith per descrivere gli inaspettati ed imprevedibili benefici sociali che deriverebbero da azioni e scelte individuali) rientra in una visione del Mondo che ha piena fede e fiducia nell’inevitabile progresso dell’umanità verso vette e traguardi sempre più alti ed avanzati (come a tanti parve nell’Inghilterra Vittoriana della seconda metà dell’800).
 
Al riguardo, trovo utile citare questo passo:
 
“Unita all’usura, la competizione sfrenata distrugge l’uomo medio per il profitto del grande e, facendo ciò, arriva a produrre quella massa di cittadini economicamente non liberi, la cui propria libertà politica viene messa in questione, esattamente perché essa non ha alcun fondamento in alcuna libertà economica, ovvero, in una qualsiasi significativa porzione di proprietà private che la supporti.”
 
~Hilaire Belloc: “La crisi della civiltà.”
 
Dopo Darwin, infatti, arrivò anche il Darwinismo sociale, applicato sia in patria che nelle colonie verso le classi meno agiate od i sudditi della Corona. Va sempre ricordato e considerato il parallelo stringente che può essere fatto tra lasciar-fare economico – con la sua illimitata competizione – e la nozione Darwiniana di “sopravvivenza del più adatto”.
 
La stessa dottrina dell’utilitarismo, che afferma – tra l’altro – che all’interno di una società ed economia tutti i soggetti (ogni singolo individuo) tendono a massimizzare il proprio piacere, rientra nel tentativo Positivista di fornire una nuova interpretazione, vera e propria religione che copra l’intera realtà della vita, partendo proprio dalla pretesa di poter quantificare il piacere personale.
 
La vita – in questa (anti-Cattolica) nuova visione del Mondo – diventa un numero.
 
Una volta che in Paesi ebbri del proprio successo su scala planetaria, come fu l’Inghilterra alla fine del XIX secolo, le classi al potere decisero di far perdere una volta per tutte ogni rilevanza ed esistenza alla religione Cattolica ed al pensiero Aristotelico-Tomista associategli, influenti pensatori come Comte cercarono di fondare una nuova religione al di fuori della Rivelazione Cristiana.
 
Isidore Auguste Marie François Xavier Comte (1798 – 1857) fu un filosofo Francese che fondò la moderna sociologia e la dottrina del Positivismo.
 
Subì l’influsso del socialista utopista Henri Saint-Simon e da questa interazione sviluppò la filosofia “positivista”, al fine di trovare un rimedio al malessere sociale generato dalla Rivoluzione Francese: la nuova dottrina sociale proposta doveva basarsi esclusivamente sulle “scienze”.
 
Comte ispirò a sua volta pensatori come Karl Marx e John Stuart Mill.
 
Le sue teorie sociologiche culminarono nell’annuncio di una nuova “religione dell’umanità”, la quale avrebbe influenzato lo sviluppo di parecchie ed influenti organizzazioni umaniste e secolari nel corso del 1800. Si afferma che Comte abbia coniato il termine “altruismo”.
 
Torniamo al “nostro” Darwin, il quale, nel delineare e formulare la sua teoria sull’origine della vita non seguì il tanto celebrato metodo induttivo e scientifico.
 
Darwin mai trovò una prova certa della sua teoria durante tutto il corso della sua vita.
 
Nella teoria evoluzionistica di Darwin manca sempre l’anello mancante tra i fossili disponibili. Da essi invece risulta un quadro più consono all’ipotesi della creazione ex nihilo delle specie viventi.
 
Esistono poi numerosi casi di specie viventi che non hanno subito alcun mutamento per milioni di anni.
 
Tutto ciò contraddice in pieno l’ipotesi di cambiamenti lenti, graduali e inesorabili che sono raccontati nella visione di Darwin.
 
Inoltre, la teoria di Darwin non è in grado di fare alcuna predizione certa sul futuro dell’evoluzione, come invece si può fare con le leggi di Newton sulla gravitazione universale con riguardo all’orbita di un pianeta o di un astro.
 
Insomma, di scientifico, la teoria di Darwin, ha ben poco.
 
Ribadiamo: a tutt’oggi nessuno – Darwin incluso - ha mai trovato o scoperto una prova sicura della validità della cosiddetta “teoria” sull’evoluzione.
 
Sulla pressoché totale mancanza di prove scientifiche a favore della teoria evolutiva sono magistrali le lezioni tenute dal telepredicatore Americano, Kent Hovind: che si tratti di biologia o di geologia, di astronomia o di qualsiasi altra branca del sapere scientifico, tutte le presunte prove a favore dell’evoluzione o sono errate o sono prefabbricate, cioè false (come il caso clamoroso della falsa somiglianza tra l’embrione umano e quello di altre specie oppure l’altrettanto fasullo albero genealogico dell’uomo che deriva dalla scimmia).
 
Va fatto notare che, ad onore di una certa onestà intellettuale del medesimo Darwin (diversamente da molti suoi sostenitori e seguaci), lo scienziato britannico sempre riconobbe il fatto che la sua teoria fosse carente di una prova certa ed inconfutabile.
 
La “teoria” di Darwin fallisce sempre e clamorosamente proprio dove dovrebbe illuminare la ricercare: non si riesce a spiegare come, quando, dove e perché “nasca” una nuova specie in un determinato momento storico.
 
In altre parole, la teoria non riesce a spiegare il suo stesso oggetto e campo di ricerca: l’origine e la nascita delle specie.
 
Darwin credeva, come Jean-Baptiste Lamark, nell'ereditarietà dei caratteri acquisiti (se a forza di allungare il braccio, il braccio si allunga, allora trasmetterò questa caratteristica del braccio allungato alla mia discendenza!).
 
Il Positivismo evoluzionista a cui si è finora accennato fu da subito concepito ed utilizzato come teoria addormentatrice dei movimenti rivoluzionari e delle rivendicazioni sociali che sconvolsero a più riprese la storia dell’800 Europeo ed in altre parti del Mondo.
 
Giusto per fare una breve divagazione, Raimundo Teixeira Mendes (1855 – 1927) fu il filosofo e matematico Brasiliano, che ideò l’attuale bandiera nazionale del suo Paese, in cui compaiono – fra l’altro – le parole “Ordem e Progresso”.
 
In realtà Teixeira Mendes subì una forte influenza ad opera di Comte e venne considerato dai suoi seguaci quale “Apostolo dell’Umanità” all’interno della “Chiesa positivista del Brasile”.
 
Era fermamente convinto il pensatore Brasiliano che le guerre sarebbero presto scomparse e che la medesima sorte sarebbe toccata alle varie Nazioni.
 
Oppose fermamente l’opera missionaria Cattolica presso gli indigeni, mentre si batté per un loro inserimento “graduale” nella società civile, senza “forzature” di sorta.
 
Grazie alla teoria di Darwin, la Scienza – oramai acclamata a nuova religione e rivelazione - diventa così un'arma del Potere Statale per controllare le maggioranze democratiche e l’opinione pubblica in genere.
 
Il nuovo Libro della Genesi diventa L'Origine delle Specie di Darwin.
 
Una curiosità: nella pubblicazione originale di Darwin si parla di “elezione” naturale e non di “selezione” naturale, come sarà poi divulgato in seguito. I seguaci e sostenitori di Darwin aggiunsero una “s” di troppo e questa fu la versione che entro nella mente popolare ed attuale cultura di massa.
 
Fino a quel momento, la fonte del diritto e della moralità in qualsiasi società era  stata Dio e la religione.
 
Ora compaiono un nuovo Dio, una nuova rivelazione, un nuovo vangelo, una nuova genesi. Tutto “inevitabilmente” deve “cambiare” per il “meglio”.
 
Nel 313 A.D., mentre da un lato l'Imperatore Costantino riconosceva la legittimità della religione Cristiana, dall’altro egli trattenne per sé il titolo di Pontifex Maximus, il che indica chiaramente che la fonte di legittimazione della legge era ancora lui, il successore di Augusto.
 
Ora, dalla caduta di Roma e dell'impero Romano d'Occidente fino al Sacro Romano Impero ed oltre, la “fons iuris” (fonte e legittimazione del diritto e della morale) resta il Papa di Roma.
 
In seguito allo scisma d'Oriente, gli imperatori in relazione con Dio diventano due, ma la suddetta distinzione e cooperazione tra potere temporale e spirituale non viene meno: semplicemente si sdoppia.
 
Con lo scisma Anglicano in Inghilterra, potere imperiale e spirituale si fondono nuovamente in un’unica persona.
 
Da Thomas Hobbes (tra i primi e massimi teorici dell’Assolutismo) fino ai giorni nostri, lo scopo resta sempre il medesimo: scalzare ed sradicare la visione Cristiana dell'uomo quale “fons iuris”, quale legittimazione del diritto, della moralità e del potere statale.
 
Oggigiorno più che mai, la “scienza” viene studiata da manuali, senza alcuna esperienza diretta e sperimentale delle tesi e delle leggi ivi presentate. Era ben conscio di ciò uno studioso come Thomas Kuhn.
 
Un esempio tipico di screditamento della scienza Cristiana è la storia della Terra piatta con riguardo al processo contro Galileo Galilei. Mai la Chiesa Cattolica sostenne che la Terra fosse piatta, anzi fece l'esatto contrario. La “teoria” della Terra piatta (propagandata e diffusa nel corso dell’800 da autori inglesi e francesi) fu, cioè, un altro strumento utilizzato dagli anticlericali di tutto il Mondo, soprattutto in Occidente, per aggredire e svilire la civiltà pre-“moderna” Cristiano-Cattolica ed il creazionismo in genere.
 
Nota al grande pubblico è una incisione tratta da uno dei racconti dell’astronomo Francese, Camille Flammarion, dove un monaco peregrino arriva alla fine del mondo e…da lì non può più procedere visto che la Terra lì “termina”.
 
Secondo il duo Engels-Marx: tutta la teoria darwiniana è semplicemente il trasferimento, dalla società alla natura vivente, della teoria di Hobbes sullo stato di guerra di tutti contro tutti, della necessità dell’assolutismo per avere la “pace” e della teoria borghese della “benefica” concorrenza, il tutto unito alla teoria sulla crescita geometrica della popolazione di Malthus.
 
Nietzsche scrisse: “l'uomo si è dunque liberato dagli antichi e tradizionali padroni, osserviamo una moltitudine di uomini, tutti uguali, tutti somiglianti, che cercano - senza posa - di procurarsi piccoli e meschini piaceri.
 
L'umanità è cioè passata da una forma di schiavitù ad un'altra: quella caratterizzata dalla continua ricerca della felicità, ma continuamente negata.”
 
All’inizio del XX secolo, prima dello scoppiare della Prima Guerra Mondiale, appare evidente a tutti che il Darwinismo è stato una “mancata” rivoluzione scientifica. Mancavano e mancano le prove di quanto argomentato da Darwin ed i suoi seguaci e sostenitori.
 
Anche sul piano internazionale, in quegli stessi anni (come già sul finire del XIX secolo), si avvertì il fatto che l’Impero Britannico aveva raggiunto la sua massima estensione, slancio ed influenza.
 
Sorse proprio in quegli la Società Fabiana, ennesimo ente creato con la benedizione del Governo Inglese, col fine di arrivare in maniera “graduale”, senza balzi, scatti, sorprese, “rivoluzioni” ad una società socialista, sia in patria che negli altri Paesi.
 
L’idea era quella di domare e controllare “con le buone” la minaccia di una rivolta violenta, anche su scala internazionale, da parte delle forze socialiste e comuniste.
 
Il gruppo fu nominato Fabiano, in onore del politico e militare romano, Quinto Fabio Massimo detto Cunctator, "Temporeggiatore" (275 a.C. – 203 a.C.), che divenne famoso e stimato durante le Guerre Puniche per le sue tattiche attendiste, temporeggiatrici, lente, ma alla fine sempre vittoriose.
 
L’utopia del Fabianesimo del XX secolo fu il credere che l’imperialismo Britannico, unito alle dottrine socialiste, potesse rappresentare un fattore di modernizzazione dell’intero Pianeta, sotto – ben s’intende – la leadership e controllo Inglesi!
 
Si voleva - dopo tutto – trovare una forma di legittimazione a quello che sarebbe diventato il Commonwealth Britannico, oggi ribattezzato il Commonwealth delle Nazioni.
 
Matteo 7:15-20 “Dai loro frutti li riconoscerete!”
 
Gesù che parla ai Discepoli sui “falsi profeti”.
 
Il caso, la necessità e l'eugenetica
 
Al movimento umanista, del quale faceva parte Julian Huxley, aderì in seguito anche il premio Nobel per la medicina del 1965 Jacques Monod (1910-1976), che con la pubblicazione nel 1970 del libro, "Il caso e la necessità", diede un contributo fondamentale alla chiarificazione della teoria evolutiva e delle sue implicazioni etico-sociali.
 
Il libro è la continuazione ideale delle tesi evoluzionistiche neodarwiniane, con particolare riferimento ai meccanismi genetici, e delle teorie sociologiche di J.S. Huxley.
 
Ricordiamo che Huxley fu un appassionato promotore delle teorie “darwiniane”, nonché il promotore dell’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza sociale e naturale e la Cultura). Tutti noi siamo a conoscenza dell’aperta propaganda e “sensibilizzazione” attuata da questo ente con sede a Parigi sull’aborto, la contraccezione, controllo delle nascite, pianificazione familiare, uguaglianza ad ogni costo, eliminazione di ogni differenza, la “parità” di genere e così via.
 
Nel secondo dopoguerra, a causa delle analoghe considerazioni dei nazisti, l'argomento dell'eugenetica non venne presentato con la stessa insistenza e chiarezza degli anni precedenti, ma sempre di eugenetica, cioè di “modi di allevamento sviluppati per gli animali ed applicati agli uomini”, si trattava.
 
Ebbene sì, quando l’uomo e la vita ed i sentimenti diventano numeri e statistiche, allora può anche accadere – come è ripetutamente accaduto – che si cerchi di “allevare” l’uomo come si fa con gli animali in una stalla, in una fattoria o – meglio – in un grande allevamento!
 
Furono comunque riproposte le misure che la accompagnano: l'attuazione dell'eugenetica avrebbe dovuto infatti avvenire senza nominare esplicitamente il collegamento con la stessa. Il libro di Monod dedica alle considerazioni di ordine etico e sociale il IX e ultimo capitolo, intitolato significativamente “II Regno e le tenebre”, parole che riconducono a una terminologia religiosa e che furono adottate da Thomas Hobbes nell'introduzione al suo “Leviathan” e, con riferimento all'escatologia cristiana, al Regno dei Cieli: «Il giorno in cui — come scrive Monod - l'Australantropo o qualcuno dei suoi simili riuscì a comunicare il contenuto di un'esperienza soggettiva, di una "simulazione" personale e non più soltanto un'esperienza concreta e reale, nacque un nuovo regno: il regno delle idee»
 
Paragonando l'inizio del capitolo IX con la Genesi, è evidente come lo “scienziato” Monod miri alla creazione di una situazione analoga alla "Genesi", in modo da poter trovare e porre il fondamento di una "nuova religione dell'Umanità", di chiara matrice Comtiana.
 
Tale intenzione traspare anche attraverso l'utilizzo di un termine come "stimmate", riferito alle tracce scritte nel Dna dei progenitori della specie umana, che non trova utilizzo se non nel campo religioso.
 
Una volta che ci si libera dei dogmi, degli insegnamenti e della morale Cattolici, l’eugenetica – e tutte le correlate diaboliche dottrine – hanno il via libera!
 
Di seguito un parallelo dei ripetuti tentativi, a cavallo dei secoli XIX e XX, della “religione” Darwiniana di controllare il Mondo, gli uomini, le risorse, la ricchezza, la vita, le menti, le anime:
 
Sec. XIX
 
-1798: T. Malthus pubblica il Saggio sul principio della popolatone          
- L'Inghilterra deve governare lo sviluppo industriale e coloniale.           
- L'applicazione di azioni vantaggiose per gli interessi nazionali, ma contrarie all'opinione pubblica, come l'abbandono delle classi povere e un'eugenetica per favorire le razze di "successo", rende necessario un supporto scientifico al Malthusianesimo.          
- Il mezzo per guidare l'opinione generale inglese è la Royal Society     
- La teoria che può scientificamente sostenere una politica malthusiana è quella che da essa è, per stessa ammissione dell'autore, derivata, e cioè il darwinismo.         
Sec. XX
- 1972: il Club di Roma pubblica il saggio "The Limits to Growth".
- L'Occidente deve governare lo sviluppo industriale e delle risorse planetarie.
- L'applicazione di azioni vantaggiose per gli interessi nazionali, ma contrarie all'opinione pubblica, come la riduzione demografica delle classi povere anziché il loro sviluppo e un'eugenetica per favorire le razze di "successo", rende necessario un supporto scientifico al neo-Malthusianesimo.
- Il mezzo per guidare l'opinione pubblica occidentale è costituito dall'Onu e dalle Accademie" come il Club di Roma.
- La teoria che può scientificamente sostenere una politica Malthusiana è quella che da essa è, per la stessa ammissione dell'autore, derivata, e cioè il darwinismo, che nel XX secolo è diventato "teoria sintetica dell'evoluzione" o "neodarwinismo".
Tratti caratterizzati Darwinismo e Neodarwinismo (che nasce e si sviluppa per cercare di far dimenticare all’opinione pubblica la fondamentale carenza del primo, e cioè la totale mancanza di prove scientifiche certe sulla sua validità i.e. il famoso “anello mancante” = nessuno hai rinvenuto il fossile di un essere mezzo uomo – mezzo scimmia per esempio, etc. etc.)
           
Certezza dogmatica      
Selezione naturale come unica possibilità di progresso
Selezione naturale come giustificazione di politiche eugenetiche           
Progresso graduale senza "rivoluzioni"
Egoismo origine del progresso (liberismo di Adam Smith)          
Collaborazione all'interno delle specie come regola di natura
Evoluzione come sinonimo di progresso               
Autori e ricercatori ben più rispettosi del metodo scientifico, come l’Americano Stephen Jay Gould, proposero teorie alternative, come quella degli “Equilibri punteggiati”:
Incrinatura della certezza
La selezione non basta a spiegare il progresso
Progresso con cambiamenti improvvisi
Inutilità delle iniziative eugenetiche
Specie "superiori" come effetto collaterale dell'evoluzione che quindi non è necessariamente intesa come tendenza verso il progresso
CONCLUSIONI
La cosiddetta “teoria” di Darwin sull’origine ed evoluzione delle specie viventi compare in un momento storico – a metà del 1800  - dove l’Inghilterra, giunta all’apice della sua potenza imperiale su scala planetaria è alla disperata ricerca di una “storia fondante” che legittimi il suo potere e dominio sul Mondo.
 
E’ un’epoca – quella del XIX secolo – dove gli amari frutti ed eredità dell’ateismo illuminista e post-Rivoluzione Francese vengono a “maturazione”, lasciando un vuoto spirituale, morale e culturale che prima era riempito e colmato dalla religione Cattolica.
 
Sono gli anni di nascita delle ideologie socialiste e comuniste, le quali – molti lo colgono tra le élites – portano con sé un potenziale rivoluzionario e distruttivo mai visto sino ad allora nella Storia, vista la loro capacità di presa sulle enormi masse popolari inurbate di lavoratori ed operai e – soprattutto – vista l’emergenza di una società umana sempre più globalizzata ed interconnessa a livello planetario.
 
La “teoria” di Darwin non è mai stata provata scientificamente, né ha mai saputo fornire alcuna predizione certa sul futuro di un qualsiasi fenomeno naturale. Si tratta, in altre parole, di una teoria falsa ed errata, scientificamente parlando.
 
Nonostante ciò, il Darwinismo viene elevato a nuova Bibbia in una società secolarizzata e comunque sempre bisognosa di una visione dell’uomo e del suo futuro rassicuranti.
 
In realtà il Darwinismo rientra nella lunga serie di culti della morte (delizia per il Demonio) che – con triste periodicità e frequenza – si ripresentano nella Storia.
 
Il Darwinismo è alla base dell’accettabilità sociale della morte di coloro che non sono “adatti” alla società in cui vivono. E’ infatti “naturale” morire se non si riesce a “tenere il passo” con l’inevitabile “progresso” dell’uomo e della “civiltà”.
 
Nella visione umana, sociale, morale e culturale del Darwinismo, chi non si “adatta”, perisce! Ed è “giusto” così.
 
 
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Per apprezzare sino in fondo questo libro avvincente e convincente - Inchiesta sul Darwinismo. Come si costruisce una teoria. Scienza e potere dall'imperialismo Britannico alle politiche ONU (di Enzo Pennetta) - consiglio la lettura anche di questi libri:
In Satan's footsteps. (by Theodore Shoebat) Sulle orme di Satana
L’origine e le manifestazioni del Diavolo e del Male nella Storia.
Il lettore resterà assai sorpreso dalle inquietanti similitudini e calzanti analogie che esistono – tanto per fare l’esempio più eclatante – nella “rivelazione” come raccontata nel culto Mormone ed in quello dell’Islam. In entrambi i casi, infatti, compare una presenza angelica e demoniaca allo stesso tempo, terrificante, brillante di luce, risplendente, eppure circondata da un’aura di morte. (Luci-fero)
 
Thomas Kuhn pubblica, nel 1962, il saggio intitolato "La struttura delle rivoluzioni scientifiche", in cui viene delineato un modello non lineare, non graduale, ma bensì "rivoluzionario", “fatto a strappi”, dello sviluppo della Scienza.
Le nuove teorie scientifiche si affermano tramite cambiamenti repentini, intervallati da lunghi periodi di stasi.
Tutto ciò accade perché ogni teoria scientifica si basa su determinati "paradigmi", assunti concettuali, teorici, strumentali e metodologici che guidano la ricerca e che nessuno mette in discussione.
La creazione, o meglio produzione, di un nuovo paradigma, quindi di una nuova “scienza”, si ha quando ci si scontra con fatti non spiegabili secondo le tradizionali teorie.
Gli elementi fondanti della scienza in generale o di una scienza in particolare possono essere fissati in opere acclamate e diffuse, come sono state in passato la Fisica di Aristotele o i Principia di Isaac Newton.
Un nuovo paradigma scientifico rappresenta una "promessa di successo" nello studio di un dato problema e la scienza che da esso viene derivata è la realizzazione di tale promessa.
La visione di Kuhn ribalta l'immagine tradizionale della scienza come "esplorazione dell'ignoto". La scienza è politica. E viceversa.
 
Yuri Alexandrovich Bezmenov è stato un giornalista Russo ed anche – e sopratutto – una ex spia del KGB, il quale – ad un certo punto della sua vita – decise di disertare per il Canada, lasciando una volta per tutte l’Unione Sovietica.
In seguito ai tanti anni trascorsi all’estero, ad esempio in India, iniziò a disapprovare la censura ed oppressione di qualsiasi intellettuale dissidente operata nel suo Paese di nascita.
Bezmenov viene sopratutto ricordato per le sue lezioni in favore della democrazia Americana, sull’anti-communismo e tutta una serie di libri scritti e diffuse intorno agli anni 1980, con special riguardo al tema della manipolazione dell’opinione pubblica in Paesi democratici e non.
 
Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (Plinio Corrêa de Oliveira)
Tutto il pensiero e l'azione di Plinio Corrêa de Oliveira prendono l'avvio e ruotano attorno a un giudizio storico: è esistita una civiltà Cristiana occidentale, animata dalla Chiesa Cattolica, frutto dell'inculturazione della fede in Occidente. Di tale splendida civiltà Cristiana è in via di realizzazione il processo di distruzione, la rivoluzione, in una dinamica storica che si articola in quattro fasi: la prima religiosa, la Riforma protestante, preceduta e accompagnata da una rivoluzione culturale, rappresentata dall'Umanesimo e dal Rinascimento; la seconda politica, la Rivoluzione francese; la terza sociale, la Rivoluzione comunista; e, infine, la quarta, la rivoluzione culturale iniziata con il Sessantotto francese ed Americano.
L'unico rimedio a questo disastro culturale per l’Occidente e per il Mondo intero è nel restaurare e nel promuovere la cultura e la civiltà Cattoliche. Nasceranno dalla opera di Correa de Oliveira, le Società di Difesa di Tradizione Famiglia e Proprietà.

viernes, 30 de enero de 2015

LA GREY DIVERSA REDUCIDA EN UNA


 
 
AL REY DON FELIPE, NUESTRO SEÑOR
 
Desde la eternidad, antes que el cielo
amaneciese al mundo el primer día,
nombrado —¡oh gran Felipe!— Dios te había
por rey universal de todo el suelo.

Y así como esparció con tanto celo
Bautista la venida del Mesía,
así ora Juan de un polo al otro envía
tras su fama inmortal tu cetro a vuelo

Ha seis mil años casi que camina
el mundo con el tiempo a consagrarte
la grey diversa reducida en una.

¡Oh cómo en ti paró la edad más dina
bien dinamente, y va tras tu estandarte
la gente, el mundo, el tiempo y la fortuna!

Francisco de Aldana
 
 
 
LA EDAD DE ORO EN EL SIGLO DE ORO

Manuel Fernández Espinosa


Puede considerarse esta glosa como continuación de la que hacíamos del Soneto de Hernando de Acuña ("Un monarca, un imperio, una espada"): nos proponemos comprender el significado que adquirió para la elite cultural del reinado de Felipe II el tema que ya desplegábamos con nuestra breve exégesis del soneto acuñano y por eso volvemos ahora nuestros ojos a un soneto de Francisco de Aldana que, aunque menos célebre que el de Acuña, no deja de ser otra pieza poética digna de descifrarse en lo que hace a las esperanzas mesiánicas que confluyen en el Imperio Español de Felipe II, pudiendo afirmar que en este otro de Aldana reverbera el mismo asunto.
 
El poema de Aldana, como el de Acuña, es expresión jubilosa ante el triunfo de la armada cristiana en Lepanto; sin embargo, las halagüeñas expectativas que podemos notar en este soneto de Aldana se verán enturbiadas por el pesimismo que aflorará en las "Octavas dirigidas al Rey Don Felipe Nuestro Señor" del mismo autor y escritas en fecha posterior.
 
Aldana condensó en las "Octavas dirigidas al Rey Don Felipe Nuestro Señor" todo un programa de autodefensa de la Monarquía filipina, basándose en su cultura y en la información que como espía disponía de la compleja trama de alianzas que se estaban trabando entre turcos, franceses e ingleses; a ello  se le une el conocimiento de ciertas profecías que ahora no vamos a desvelar aquí y que hacen pensar que Aldana formara parte de algún círculo místico-político: su relación con Arias Montano y el grupo que éste dirigía espiritualmente avalan esta aventurada conjetura. Simplemente digamos aquí que las "Octavas dirigidas al Rey Don Felipe Nuestro Señor" son a manera de un informe geopolítico sublimado en metro poético que advierte a Felipe II de los peligros que se ciernen sobre España y recomienda la alianza con Portugal. Pero, como digo, las "Octavas dirigidas al Rey Don Felipe Nuestro Señor" presentan tal complejidad que el lector nos disculpará que ahora la orillemos. Vayamos ahora al soneto "Al Rey Don Felipe, Nuestro Señor".
 
El soneto está escrito tras la Batalla de Lepanto. Esta victoria de la Cristiandad (Cristiandad tan mermada por la falsa reforma protestante) no estuvo exenta de signos celestes que hicieron concebir a muchos (como Acuña o Aldana) la idea de que se acercaba el final de los tiempos, presagiándose el triunfo completo de la Cristiandad. El protagonista de Lepanto, Don Juan de Austria (al que el soneto dedica el segundo cuarteto) es comparado a San Juan Bautista en lo que éste tiene de precursor de Cristo. Don Juan, con su victoria, adelanta la instauración del Reino de Cristo bajo la égida de Felipe II a quien Aldana presenta en el último verso del primer cuarteto como: "rey universal de todo el suelo". El primer cuarteto identifica a Felipe II con el monarca que está llamado a cumplir el destino providencial anunciado en las antiguas profecías:
 
"Desde la eternidad, antes que el cielo,
amaneciese al mundo el primer día,
nombrado, ¡oh gran Felipe!, Dios te había
por rey universal de todo el suelo".
 
Uno de los signos precursores más evidentes que posibilitaban establecer el perfil de Felipe II como "rey universal de todo el suelo" fue la misma victoria de Lepanto. Aquí concuerda Aldana con el cordobés Juan Rufo (1547-1620) que en "La Austriada" declara, al unísono con Acuña y Aldana, que en Felipe II se consumaban las profecías veterotestamentarias y novotestamentarias:
 
"de aquella memorable profecía,
ya que descubre el blanco del intento
con que el divino intérprete decía:
Tiempo vendrá en que el mundo dé aposento
a un pastor solo y a una monarquía".
 
("La Austriada", Juan Rufo)
 
¿Cómo podrían aplicarse a España profecías del Antiguo Testamento que, a simple vista, parecerían aplicables a Israel?
 
La elite eclesiástica y militar del reinado de Felipe II estaba convencida de que el título de "pueblo elegido" del Antiguo Testamento (Israel) correspondía ahora a España, en tanto que los judíos habían permanecido ciegos ante Cristo, llegando incluso a crucificarle. Este discurso teológico-político se fundaba en la exégesis de algunos textos sagrados, como la epístola de San Pablo a los romanos: "Y no es que la palabra de Dios haya quedado sin efecto. Es que no todos los nacidos de Israel son Israel, ni todos los descendientes de Abraham son hijos de Abraham" (Rom., 9, 6). Estamos ante una traslación de la hegemonía nacional, de naturaleza providencialista: el Israel de los judíos ha perdido la prelación por haberse hecho reo de su proterva resistencia contra Cristo y corresponde que el pueblo más fiel de entre todos los pueblos de la Cristiandad (el español) sea ahora el predilecto de Dios, un pueblo al que tiene elegido (al igual que a su conductor: Felipe II): "Desde la eternidad...".
 
El segundo cuarteto lo dedica Aldana a D. Juan de Austria, más arriba he comentado que éste es comparado a San Juan Bautista. Aldana era un ferviente partidario de D. Juan de Austria, prueba de ello son las "Octavas al Serenísimo Señor Don Juan de Austria" (de menos extensión que las dirigidas a Felipe II, pero no de menor intensidad en la devoción).
 
El primer terceto contiene los versos más arcanos de todos los que componen el soneto:
 
"Ha seis mil años casi que camina
el mundo con el tiempo, a consagrarte
la grey diversa reducida a una".
 
En él resuena aquel verso del soneto de Hernando de Acuña:
 
"una grey y un pastor solo en el suelo".
 
Pero lo que resultará más curioso para un profano es el número de los "seis mil años". Como todo lo perteneciente al mundo tradicional, la cifra no es arbitraria en modo alguno: su raigambre es muy antigua, aunque debemos a San Agustín su más perfecta concreción. San Agustín estableció que, desde la creación de Adán hasta los acontecimientos apocalípticos, hay seis edades. Este esquema cronológico estuvo en vigor durante toda la Edad Media: "Las Crónicas de Nuremberga" de 1493 también se ordenaban en seis edades, aunque añadían una más correspondiente al Juicio Final. Comprobamos que en la España de Felipe II este esquema temporal también ejercía un poderoso influjo. Cada una de las seis edades constaba aproximadamente de mil años.
 
Con antelación a San Agustín, algunos Padres apóstolicos, también el apologista San Justino, afirmaban que el mundo perecería en el sexto milenio a contar desde el principio de la creación: si en seis días había sido creado el Universo, seis mil años serían los que duraría en su estado actual, al término de los cuales se impondría un reino de justicia y bondad: que, en clave cristiana, se identificó con la Edad de Oro. Es el "reino" de los milenaristas. El milenarismo no ha sido nunca anatematizado por la Iglesia, lo que sí mereció la condena eclesiástica fue la interpretación de algunos milenaristas que apostaban por pasar esos seis mil años en disfrutes goliárdicos.
 
La conclusión del soneto de Aldana es la que advertíamos en Hernando de Acuña: "la edad gloriosa en que promete el cielo" la Edad de Oro adviene justamente en el reinado de Felipe II: la victoria de Lepanto es señal que presagia esa Edad de Oro que sucederá a la implantación del completo imperio español de Felipe II, para unir a todos los pueblos del mundo bajo Cristo Rey:
 
"¡Oh cómo en ti paró la edad más di[g]na
bien di[g]namente, y va tras tu estandarte
la gente, el mundo, el tiempo y la fortuna!"
 
Como hemos dicho más arriba, estas gozosas esperanzas se frustrarán en la composición titulada "Octavas dirigidas al Rey Don Felipe, Nuestro Señor", cuando Aldana percibe amenazada la hegemonía de España (incluso su supervivencia) por la alianza de las fuerzas de la infidelidad (el peligro turco, francés e inglés en connivencia; también las rebeliones flamencas y la inquietante presencia de los moriscos que todavía no habían sido expelidos de España y que constituían una "quinta columna" encubierta), pero incluso en el peligro que el poeta declara, éste recomendará:
 
"Con sólo el rey te basta lusitano,
junto cual os juntó natura propia,
aquel que enfrena y rige el oceano
hasta el quemado mundo de Etiopia:
gran Sebastián, que sobre el curso humano
nueva razón de méritos se apropia,
nuevo modo de ser, nuevo renombre,
que excede al hombre como al trono el hombre".
 
Las dos monarquías peninsulares, bien avenidas y concertadas, son así la esperanza del establecimiento de la Edad de Oro cristiana. Las esperanzas se truncarían. Pero no le reprochemos a Francisco de Aldana desconocer la hora de su muerte que fue el mismo día en que cayó en el campo del honor con el Rey Don Sebastián en Alcazarquivir. Pero no quedó por Aldana que, desaconsejando al Rey portugués el combate, una vez que la batalla se entabló le previno para que el joven monarca se pusiera a salvo retirándose con el mejor caballo, diciéndole: "si Dios no lo remedia no quedará hoy hombre con vida de nosotros".
 
Era el 4 de agosto de 1578: portugueses y españoles murieron juntos en Alcazarquivir, pero ni a Portugal ni a España se les puede matar, hasta que se les maten sus sueños. Y sus sueños no se les podrán matar nunca mientras haya portugueses y españoles firmes en asumir el destino providencial que nos tiene asignado Dios.

lunes, 26 de enero de 2015

UN MONARCA, UN IMPERIO, UNA ESPADA



EXÉGESIS BREVE DE UN SONETO Y SUS VATICINIOS


Ya se acerca, señor, o ya es llegada
la edad gloriosa en que promete el cielo
una grey y un pastor solo en el suelo,
por suerte a vuestros tiempos reservada.

Ya tan alto principio, en tal jornada,
os muestra el fin de nuestro santo celo
y anuncia al mundo, para más consuelo,
un Monarca, un Imperio y una Espada.

Ya el orbe de la tierra siente en parte
y espera en todo vuestra monarquía,
conquistada por vos en justa guerra.
 
Que a quien ha dado Cristo su estandarte,
dará el segundo más dichoso día
en que, vencido el mar, venza la tierra.






 
Hernando de Acuña
 
 
 
Manuel Fernández Espinosa
 
 
Muchos fueron los poemas dedicados a Felipe II, pero pocos como éste de Acuña adquieren tal profundidad, pudiendo afirmar que nos encontramos ante la expresión de todo un programa político que cifra, en definitiva, las claves providencialistas del reinado de Felipe II el Grande.
 
El poeta, soldado también, inicia el soneto con un tono oracular propio de un vate que adivina en su ministerio poético y anuncia como un heraldo la gloria que se avecina: "Ya se acerca, señor, o ya es llegada". En este verso poderoso se afirma triunfalmente la inmediata realización histórica de muchas profecías, convenientemente estudiadas por los escrituristas que en el estudio de sus monasterios trataban de interpretar a los profetas veterotestamentarios. Pero no descuidemos la conexión de estos versos con aquellos otros de la Égloga IV de Virgilio: "Ya retorna la Virgen/retorna el reino de Saturno". Estos versos del estro latino hacen referencia a la profecía de un héroe que restauraría la "Edad de Saturno", lo que significa la "Edad de Oro". San Agustín de Hipona identificó a este héroe de los oráculos paganos con Cristo, pero Dante identificó a dicho "héroe" vaticinado con el Monarca: "La justicia más poderosa se da solamente bajo la autoridad del Monarca" (De Monarchia). Hernando de Acuña ve en Felipe II el héroe cristiano, el Monarca que impondrá la justicia y por ello mismo restaurará el reino de Astrea (la Virgen del verso virgiliano): la justicia. En este plano sería muy interesante recordar el maravilloso discurso de Don Quijote de la Mancha a los pastores de aquel hato en que tan bien recibido fue nuestro caballero andante, donde se refiere justamente a la "Edad de Oro": hay otros pasajes cervantinos en esa misma línea.
 
La datación del soneto plantea problemas a los especialistas en Hernando de Acuña, pero es muy plausible entender que estos versos fueron escritos en un estado eufórico posterior a la victoria de Lepanto, como se infiere del postrer verso que cierra en redondo el soneto: "en que, vencido el mar, venza la tierra". Por si fuese poco, en el primer verso del segundo cuarteto leemos: "Ya tan alto principio, en tal jornada". El "tan alto principio" se refiere al establecimiento de la "edad gloriosa" del segundo verso del primer cuarteto, la "tal jornada" no puede ser otra que el triunfo del "estandarte de Cristo" que se menta en el primer verso del primer terceto.
 
Podemos observar que el poeta no es ajeno a las teorías teológico-políticas, como la de la "guerra justa", expuestas por Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Luis de Molina, Francisco Suárez o Diego de Covarrubias, por mencionar a los más sobresalientes.
 
Mención especial nos merece el verso: "un Monarca, un Imperio y una Espada". El Monarca no es otro que Felipe II. El Imperio es el Imperio Español (sabido es que Carlos I de España y V de Alemania cedió la corona imperial a su hermano Fernando), pero lo más interesante del verso, nos parece, es eso de "una Espada".
 
Frente a la célebre teoría de las Dos Espadas aquí se establece como indiscutible la supremacía de una sola Espada: la del Emperador Español. El antecedente de la doctrina de las Dos Espadas hay que buscarlo en la carta del papa Gelasio I al Emperador de Oriente Anastasio I y supone la supremacía del poder papal (la espada espiritual) frente al poder imperial (la espada temporal). Nuestro Alfonso X el Sabio lo declaró en líneas magistrales: "E estas son las dos espadas porque se mantiene el mundo: la primera espiritual, e la otra tenporal (sic). La espiritual taja los males ascondidos e la tenporal los manifiestos" (Prólogo de la Segunda Partida).

Sin embargo, en el soneto de Hernando de Acuña la espada espiritual queda subsumida en la espada temporal de Felipe II, por lo que podemos decir que la concepción guarda relación con la doctrina del "De Monarchia" de Dante Alighieri, donde se destaca la supremacía del poder del Emperador sobre el del Papa. La gran diferencia que marca Hernando de Acuña es que el Monarca y el Imperio no serán ya ni cualquier monarca de los muchos que se agitan por sus bajas ambiciones en la Cristiandad fragmentada, ni el emperador del Sacro Imperio Romano Germánico, que se entiende como árbol sin frutos frente a la fecundidad del poderío español, plenamente católico: más católico que algunos Papas y Cristianísimos Reyes.
 
El programa teológico-político de este soneto, en consonancia con el tono que prevalecía en la católica España de Felipe II, se prolongaría en el tiempo. Así explicaba en 1636 el polifacético y genial cisterciense fray Juan de Caramuel, la naturaleza -divina- del Imperio Español:
 
"Si volvemos los ojos a otras Repúblicas del Mundo, apenas hallaremos una en quietud, porque todas están en un perpetuo movimiento. Aquella se mueve por interés, ésta por ambición, esa por tiranía, la otra por envidia, muchos por venganza, no pocas por emulación: todos estos motivos son exteriores, y así ninguna se mueve "ab intrinseco", por motivo intrínseco que tenga. Luego las tales Provincias son Repúblicas muertas, son lo inanimadas, o por mejor decir, son lo desalmadas; solo entre muchas de ellas, nuestra gloriosa España es Monarquía que vive, pues se mueve "ab intrinseco". Qué mayor movimiento, qué jornada más larga, qué camino más dificultoso, que el de las dos Indias, América y Asiática; pues "ab intrinseco" nació este singular movimiento. Hiciéronle Castilla y Portugal, su motivo fue, no interés, no ambición, no tiranía, no venganza, no envida, no emulación, no vanagloria, que todo esto es extrínseco, y muy indigno de la candidez y Majestad de aquesta Monarquía: fue "ab intrinseca" aqueste movimiento, fue movimiento muy vital, y animado... Se originó del Zelo de la honra de Dios, de deseos ardentísimos de convertir infieles y publicar el Evangelio en distantes Regiones".
 
("Declaración mística de las Armas de España, invictamente belicosas").
 
No era el único. Pero este patrimonio yace en el olvido y las claves se nos pierden. Sin comprender nuestra historia, el futuro se hace cada vez más oscuro. Hora es ya de volver a las fuentes de nuestro pasado esplendor, para reanudar y alumbrar un esplendor más glorioso todavía en el porvenir.


jueves, 22 de enero de 2015

EL SANTO ÁNGEL CUSTODIO DE ESPAÑA


ELEMENTOS DE UNA DEVOCIÓN NACIONAL


Manuel Fernández Espinosa


Dedicado a la memoria de D. Juan Párraga Barranco,
sacerdote de Cristo y devoto del Ángel de la Guarda,
que pasó a mejor vida en Enero de 2015.
 
Requiem aeternam dona ei Domine, Et lux perpetua luceat ei.
 


Dionisio Areopagita afirma que, según las Sagradas Escrituras, son nueve los nombres de todos los seres celestes y alega la clasificación de su maestro Hieroteo de Atenas que establecía tres jerarquías de tres órdenes cada una: Tronos, Querubines y Serafines; Potestades, Dominaciones y Virtudes; Ángeles, Arcángeles y Principados. Y añade Dionisio Areopagita que: "...los ángeles velan por nuestra jerarquía humana como lo refiere la Escritura. A Miguel le llaman el príncipe del pueblo judío, y designan diferentes ángeles para gobernar otras naciones, porque el Altísimo estableció los términos de los pueblos según el número de los ángeles".
 
Es una de las primeras referencias de la tradición cristiana para constituir la doctrina sobre los ángeles y, en el punto que ahora nos interesa, la de esos ángeles custodios de las naciones.
 
Los tres niños a los que se apareció la Virgen María en Fátima también dieron testimonio de haber recibido tres visitas de un "Ángel" que, como nos cuenta Sor Lucía dos Santos (1907-2005), se presentó como ángel de la paz, instándoles a los niños para que: "De todo lo que pidiérais ofreced un sacrificio como acto de reparación por los pecados con los cuales Él es ofendido, y de súplica por la conversión de los pecadores. Atraed así sobre vuestra patria la paz. Yo soy el Ángel de su guarda, el Ángel de Portugal...".
 
Como oportunamente indica el P. Jean Daniélou: "Entre estos nombres para el ángel custodio, el de "ángel de la paz" es especialmente venerado. La expresión aparece en la literatura apocalíptica judía, donde el ángel de la paz es el que acompaña a Enoc y le explica el significado de las visiones"*.
 
San Basilio (ca. 330-379) también pudo escribir que "Entre los ángeles, algunos están encomendados a las naciones, otros a los fieles..." ("Contra Eunomio de Cízico").
 
Fray Valentin Long (O.F.M.) podía escribir que: "Si San Miguel ha sido llamado el ángel de Israel (...) esto implica que también otras naciones disfrutan de la custodia de un ángel especial. Abiertamente [la Sagrada Escritura] declara que lo tienen los persas, y los griegos".
 
El Ángel Custodio de las naciones forma parte, por lo tanto, de la recta angelología del catolicismo, contando con una dilatadísima tradición que reposa sobre la base de la Sagrada Biblia, la Tradición Apostólica, la Patrística y muchos eminentes Doctores de la Santa Madre Iglesia. Cosa distinta es que sea un aspecto muy poco conocido en nuestros aciagos tiempos, cuando el conocimiento de nuestra propia tradición ha sufrido una considerable merma debido a muchos factores.
 
España también tiene su Ángel Custodio. Su Santidad León XII concedió a Fernando VII que la Iglesia española celebrara la Festividad del Santo Ángel Custodio de España el día 1 de octubre; los trastornos de calendario provocados por el Concilio Vaticano II movieron la festividad al 2 de octubre. En 1897 el Beato Manuel Domingo Sol fundaría la "Pía Unión de Oraciones al Santo Ángel de España". Esta Pía Unión planeó erigir un gran monumento al Ángel de España; se hizo una imagen a manera de boceto y todavía se la venera en una capilla lateral de la iglesia de San José de Madrid (calle Alcalá, 43). que fue inaugurada el 12 de mayo de 1920. Pero la tradición del Ángel Custodio de España se remonta muchos siglos atrás.


Podríamos retroceder hasta los tiempos fundacionales de la Iglesia en España, pero cuando aparece con más contundencia la figura del Santo Ángel de España será en la Reconquista. Justamente, dos obras literarias de nuestro Siglo de Oro nos presentan al Ángel de España auxiliando a los españoles en la guerra divinal contra los enemigos invasores. Dichas obras literarias fueron escritas en el siglo XVII, pero su acción transcurre en la Edad Media. La primera de ellas es "El Bernardo o la victoria de Roncesvalles", cuyo autor fue Bernardo de Balbuena (1568-1627), Obispo de San Juan de Puerto Rico. Se trata de una epopeya en octavas reales que, si no se conoce lo suficiente bien pueda deberse a que fue escrita en 24 libros. Aquí se nos presenta al Ángel de España brindando ayuda a los españoles contra las tropas de Carlomagno.


La segunda de las obras literarias en las que vuelve a aparecer el Ángel de España es en el auto sacramental (de exaltación eucarística y nacional) que escribió D. Pedro Calderón de la Barca, posiblemente en 1637, titulado "La devoción de la Misa" (texto completo del auto sacramental enlazado). El argumento de este precioso auto sacramental lo presta la victoria sobre Almanzor que alcanzó Garci Fernández (938-995), conde de Castilla e hijo del legendario Fernán González. Uno de los personajes principales sobre los que se articula esta obra dramática es precisamente el "Ángel" que nos dirá de sí mismo:


"...yo, que
titular inteligencia
soy de Castilla, pues nadie
ignora que su Ángel tengan
no las repúblicas sólo,
mas las especies diversas
de frutos y animales,
como doctores asientan
defendiendo esta custodia
con nombre de presidencia".


Pensamos que las épicas intervenciones de la prominente figura de Santiago Apóstol, Patrono de España, en las lides contra el moro bien pudieron eclipsar el protagonismo del Ángel de España en muchas de las batallas de nuestra Reconquista. Pero, al igual que Santiago, San Millán, San Sebastián y otros santos que venían a combatir en nuestras huestes desde los Cielos, el Ángel de España intervino de modo crucial en el aliento y socorro de las armas hispánicas. En la batalla de las Navas de Tolosa se adjudicó al Ángel de España el haber guiado a los cristianos por los vericuetos de Despeñaperros bajo la figura de un pastor.


Y no son las únicas citas literarias que cabe mencionar sobre el Ángel de España, pero dada la rareza de las obras en cuestión, bien es cierto que el tema pasa desapercibido y parece que pocos quieren ponerlo sobre la mesa. En "L'Atlàntida" (1877) su autor Mosén Jacint Verdaguer se refiere a "l'Angel d'Espanya". Los testimonios artísticos no quedan en la poesía y la dramaturgia, también en la heráldica y en algunas representaciones plásticas; podemos indicar cierta vidriera de la capilla mayor del Seminario Diocesano de la Inmaculada y San Eufrasio de Jaén que representa al Santo Ángel Custodio con el escudo del Reino de España.


En nuestros tiempos descreídos, conviene mucho rescatar del olvido esta figura angélica que Dios nos designó como guardián de nuestra nación. Sabemos que la época no es muy propicia para la fe, pero un puñado de españoles rezando fervorosamente al Santo Ángel de España podría hacer mucho más por España que muchas de esas iniciativas que se proponen y se demuestran estériles.



BIBLIOGRAFÍA:


Dionisio Areopagita, "Obras completas" ("La jerarquía celeste"), La BAC, Madrid, 1995.

Tomás de Aquino, "Suma Teológica. II-III" ("Tratado de los ángeles"), La BAC, Madrid, 1959.

Ramon Llull, "Llibre de meravelles" ("Dels ángels"), Edicions 62, Barcelona, 1993.

Jean Daniélou, "The angels and their mission. According to the Fathers of the Church", Christian Classics, Inc. (The Newman Press), Nueva York, 1976.

Valentin Long, "The Angels in Religion and Art", Franciscan Herald Press, Chicago, 1971.

Juan S. Cla Díaz, "Fátima, Aurora del Tercer Milenio", Madrid, 1999

Pedro Calderón de la Barca, "La devoción de la Misa".

Santo Ángel de España.


* La cita del P. Jean Daniélou (S.J.) es de la traducción al inglés de su libro: "Les Anges et Leur Mission". Al no disponer de la edición original francesa, cito "The Angels and their Mission. According to the Fathers of the Church" (Christian Classics, Inc. 1976). El pasaje en inglés que traduzco al español dice: "Among these names for the guardian angel, that of "angel of peace" is especially venerable. The expression appears in the Jewish apocalyptic literature, where the angel of peace is the one who accompanies Henoch and explains the meaning of his visions".

martes, 20 de enero de 2015

POLÍTICA PARA LA NACIONALIDAD ESPAÑOLA





Por Antonio Moreno Ruiz

Historiador y escritor


Que la política española está llena de sinsentidos especialmente desde el régimen de 1978 no es ningún secreto, y eso afecta a muchos ámbitos, más allá de lo que podamos considerar como mera política. A día de hoy, vemos como se exige visados a hispanoamericanos que son nietos de españoles y sin embargo, vemos cómo africanos o asiáticos, sin ningún vínculo con nuestra patria, obtienen fácilmente el documento nacional de identidad. Hay mucha gente con vínculos etnoculturales con España que no tienen la nacionalidad y sin embargo alguien nacido en España ya automáticamente la tiene. Encima, en la época de Alfonso “XIII” (el primer productor pornográfico de España), concretamente en la dictadura del general Primo de Rivera, se creó un decreto para que judíos sefarditas, que ningún vínculo tenían con nuestra patria desde hacía siglos, y que más bien en esta comunidad se habían dado fuertes muestras históricas de aversión a las Españas (1), fueran adquiriendo la nacionalidad. Aquello se implementó en el franquismo y se ha extendido a lo bestia con el (des)gobierno rajoyesco, gracias a la mano y la obra del ex ministro Ruiz Gallardón. Y ahora amenazan los dizque moriscos, que forman parte de la élite del actual Magreb… Sin embargo, ningún país norteafricano está pensando en regalar nacionalidades a los cristianos bereberes que fueron expulsados por los árabes, ni tampoco a descendientes de vándalos, alanos y griegos. Los sionistas tampoco parecen muy favorables a darle la nacionalidad a los palestinos que expulsaron de su tierra, cuando llevaban allí muchos más años que ellos, que no dejan en muchos casos de ser unos recién llegados. ¿Por qué, entonces, España aplica error tras error, brillando el sentido común por su ausencia?

Desde aquí, damos unas pautas que creemos tan necesarias como objetivas para la nacionalidad española:

-IUS SANGUINIS:

Debe primar, sin duda, el derecho de sangre sobre el “ius solis o “derecho de suelo”, que en muchos casos puede ser engañoso. Creemos que en este sentido Italia ha mantenido una política sensata y hasta la generación de los bisabuelos es posible obtener la ciudadanía italiana siempre y cuando se demuestre el vínculo directo de sangre. Tal vez por eso en algunos pagos de Sudamérica se ha creado un “italianismo” (2) totalmente artificial y desproporcionado; pero es que si España hiciera lo mismo, a lo mejor se rescataría el hispanismo que buena parte de la sociedad hispanoamericana exaltó a principios del siglo XX, cuando el nicaragüense Rubén Darío escribía la Salutación del Optimista, el mexicano Amado Nervo cantaba a la raza de águilas y leones y el peruano José Santos Chocano hacía lo propio con los caballos de los conquistadores.

Lo dicho: Debe primar el derecho de sangre, y debemos desechar los vanos politiqueos que el régimen del 78 ha introducido, por el cual, un método de obtener la nacionalidad española es demostrar que uno tiene un antepasado que combatió en el bando rojo en la Guerra Civil. El mayor exilio político contemporáneo español no ha sido el rojo/republicano, sino el carlista. Miles de descendientes de carlistas están desde el siglo XIX presentes en Argentina y Uruguay y seguramente muchos de ellos ya no contarán con el derecho a la nacionalidad, y esto es totalmente injusto. La sangre, concepto objetivo, ha de primar sobre los vanos politiqueos dirigidos por mentalidades orwellianas que nos han llevado a la ruina. Más sangre española y menos partidismo.


-RELACIÓN DE MÉRITOS:

En el siglo XX vimos cómo el ejército español se reorganizaba en el norte de África, luchando con uñas y dientes en un territorio que siempre fue hispánico, manteniendo, muchas veces, a pesar de los espurios intereses politiqueros, enhiesta la bandera española allá donde bien correspondía. Fue la época fundacional de los Regulares y la Legión, que tantas glorias han inscrito en nuestras militares banderas. Pues bien, lógicamente, y también inspirados en el modelo de la Legión Extranjera francesa, este tipo de méritos sí que dan derecho a la nacionalidad, porque el que se bate con riesgo de su propia vida, ¿acaso no tiene derecho a que se le reconozca la bandera que defiende con su sangre? No es nada reciente: Ya pasaba en los gloriosos Tercios que campeaban por Flandes.

Otrosí, si bien la milicia es todo un filtro de mérito, también lo son otros, como es el plano de la intelectualidad. Gente que con su talento, dedicación, esfuerzo y trabajo sirve de una manera sincera a nuesta patria, debiera tener un salvoconducto para compartir de una manera integral nuestra nacionalidad.

Debe elaborarse toda una relación de méritos por la cual sea posible, con el contraste de la información, hacer que el servicio a España pueda tornarse en algo tangible.


-ATENCIONES ESPECIALES:

O bien por derecho de sangre o bien por relación de méritos, hay casos que merecen atenciones especiales. Uno de ellos puede conjugar dos factores, como es el caso de Puerto Rico, una perla caribeña que, como otras tierras vinculadas antaño a las Españas, nunca quiso separarse. En esta isla que tantos vínculos aún tiene con España, y en especial a través de Canarias y Andalucía, está surgiendo un movimiento españolista muy interesante; un ideal que, por encima de determinados politiqueos, quiere recuperar al pueblo boricua para España, con todo lo que ello implica. Y es que no en vano sería la lógica continuidad histórico-política de un pueblo que siempre quiso ser español. Merecen el apoyo y la adhesión de todos los españoles de bien, y nuestra diplomacia debería estar muy atenta a esto.

Y es que tanto hablar de la “autodeterminación” y el “derecho a decidir”, que los anglosajones promovieron tras la Primera Guerra Mundial para fastidiar a los imperios centrales y que de hecho el comunismo aprovechó para trastocar Rusia, pero no vemos que hagan lo propio con los pueblos a los que se empeñan en colonizar.

Asimismo, entre la sangre y el mérito, también merece una atención especial la vinculación histórica. Gentes de Portugal, Nápoles (y Sicilia), el Franco Condado, y por supuesto, el Rosellón y la Cerdaña, deberían tener un acceso preferente a la nacionalidad española.


-DEROGACIONES Y TRAICIONES:

Ningún vínculo nos une con musulmanes o sionistas. Nosotros somos españoles, no andalusíes o sefardíes, que son otras realidades; que en todo caso, fueron realidades “en España”, pero no de España. Otrosí, no consentimos que se cambie el nombre de nuestra sagrada patria, que se mantuvo desde prerromanos tiempos y estuvo a punto de romperse con la invasión islámica acaudillada por árabes y comandada por bereberes. No renegamos de nuestro pasado, pero por eso mismo: Porque somos españoles y reconocemos a los que lucharon por recuperar la España perdida frente a quienes, aprovechándose de su legado, no quisieron ni respetar su nomenclatura.

Por sentido común y verdad histórica, hay que exigir la derogación de todas las injustas leyes que han ido desde Alfonso “XIII” a Gallardón, siendo que el interés económico-politiquero y el embuste victimista no son requisitos válidos para nada, ni mucho menos deben ser privilegios, como de hecho lo son para los descendientes de sefarditas.

Otrosí, hay delitos de alta traición que deben ser considerados para perder la nacionalidad española por más sangre ibérica que se tenga en las venas. En nuestro tiempo, muchos empresarios inescrupulosos no sólo hacen negocios en la colonia narco-pirata de Gibraltar, sino que la enriquecen, teniendo sociedades fantasmas y utilizando su paraíso fiscal. Todos aquellos que incurran en esta tamaña felonía no merecen formar parte de nuestra milenaria patria. Las altas traiciones se tienen que pagar. No puede ser que las oligarquías se aprovechen de nuestro nombre para que encima la ley les proteja y permita que no tributen ni invierta ni un céntimo en el país, y que encima ellos dirijan muchas veces la política y hasta aumenten sangrantes traiciones que provocan que muchas veces seamos el hazmerreír no es de recibo y toda contundencia es poca. Hay que tener dignidad para llevar la nacionalidad española, y no hay peor enemigo de España que sus internos traidores, que antes sucumbiremos por ellos que por extraños, como previó el ínclito Gaspar de Jovellanos (3) hace dos siglos.

Así, pues, que las empresas que vayan a robar a otros países, con técnicas fraudulentas, que no invoquen el sagrado nombre español cuando el gobierno de determinado país le apriete las tuercas; porque este tipo de empresas no tiene más patria que el dinero, y sólo se sirven de nuestro país para chuparle la sangre. Y con esto no decimos que todas las empresas sean así, porque sería muy desgraciado de nuestra parte comparar a los oligarcas con los sufridos autónomos que día tras día hacen patria con su sudor.




En todo caso, somos conscientes de que la nación-estado es la crónica de una muerte anunciada, producto de las revoluciones del XVIII y sus epílogos del XIX y del XX y que un documento nacional de identidad no es un fin absoluto. La sangre, la cultura y la tradición no van a cambiar por más que haya papeles de por medio. Empero, ya que tenemos que tener una administración, por lo menos vamos a hacerla elevada, con un digno y trascendente interés nacional.








(1) Hubo casos de piratería judía en el Caribe, muchas veces azuzada por ingleses y holandeses. No en vano, tanto Miranda como Bolívar recibieron dinero de sefarditas de Curazao para separar las Españas. Véase al respecto:








(2)Véase:






(3) Algunas impresiones sobre Jovellanos:


sábado, 17 de enero de 2015

ZACARÍAS GARCÍA VILLADA Y EL DESTINO DE ESPAÑA




EL PROVIDENCIALISMO ESPAÑOL DEL SIGLO XX

Manuel Fernández Espinosa


Es justo poner junto a "Defensa de la hispanidad" de Ramiro de Maeztu (1934) y a la "Idea de la hispanidad" de Manuel García Morente (1938) una obra todavía menos conocida que éstas: "El destino de España en la Historia Universal", cuyo autor fue el P. Zacarías García Villada (S.J.) y que en principio fueron dos conferencias que su autor pronunció en la primavera del año 1935, bajo el techo de Acción Española. La insigne revista Acción Española se apresuró a publicar el texto de estas conferencias y posteriormente, en el aciago año 1936, el texto sería dado a la estampa con algunas adiciones, publicándose por la Editorial Cultura Española.

Zacarías García Villada había nacido el 16 de marzo de 1879 en Gatón de los Campos (Valladolid). Ingresó en la Compañía de Jesús el año 1894 y estudió en España y en el extranjero, formándose en Teología, Filosofía e Historia. Fue ordenado sacerdote en Innsbruck el año 1909. Tras su retorno a España trabajó para los archivos de la Corona de Aragón (1911-1912), colaboró en la edición de la "Crónica de Alfonso III" (1918) y elaboró el "Catálogo de los códices de la Catedral de León" (1919), sus obras capitales fueron "Historia eclesiástica de España" y "Paleografía española". García Villada fue un pionero de la metodología histórica en España; y en el campo paleográfico es considerado como el digno continuador de aquel erudito P. Flórez, alma de la monumental obra "España sagrada. Teatro geográfico-histórico de la Igleisa de España". Tuvo un vínculo muy estrecho con el ICAI (Instituto Católico de Artes e Industrias), escuela de ingeniería de la que sería Universidad Pontificia de Comillas. Trabajó codo con codo con el también padre ignaciano, el eminente historiador P. Antonio Astrain (1857-1928), ayudándole en la monumental historia de la Compañía de Jesús que preparaba el P. Astrain; por su lado, en lo que atañe a sus investigaciones propias, García Villada recopiló como unas 30.000 fichas y 2.000 diapositivas de códices medievales, a los que amorosamente dedicaba su estudio; pero con el advenimiento de la II República y los tumultos incendiarios que la inauguraron, el fruto de su trabajo fue destruido; poco después la II República expulsa a la Compañía de Jesús, empero el P. García Villada permanece en España y es en esta circunstancia cuando nuestro historiador jesuita se convierte en un hombre de acción. Suspendida la actividad docente por orden gubernamental, García Villada reorganizará en un chalet del Paseo de Rosales un centro docente para reanudar las clases, bajo el nombre de Didaskalion, reuniendo a unos 350 alumnos del antiguo colegio jesuita de Areneros. Su labor científica fue incluso reconocida por eminencias republicanas, como D. Claudio Sánchez Albornoz y en 1935 se le nombró miembro de número de la Real Academia de la Historia; incluso se le propuso por parte del gobierno que le darían protección a cambio de distanciarse de la Compañía de Jesús (que había sido expulsada, pero continuaba su labor en la clandestinidad), el vallisoletano se negó rotundamente a renegar. Una vez que estalló la guerra, se refugió en casa de unos sobrinos madrileños, pero se le apresó y "El destino de España en la Historia Universal" fue el gran delito por el que los milicianos lo asesinaron en la carretera de Vicálvaro, el 1 de octubre de 1936.

La organización que acogió estas conferencias del P. García Villada fue Acción Española. Esta sociedad cultural, además de revista, fue una escuela de pensamiento que empezó su andadura en Madrid a partir de diciembre de 1931, congregando a personalidades de la cultura española de diversas procedencias, aunque todas ellas coincidentes en un ideario conservador, católico, monárquico y contra-revolucionario. Bajo la dirección de Ramiro de Maeztu empezaron a concentrarse en Acción Española relevantes monárquicos, tanto carlistas como alfonsinos. Algunos han querido ver en Acción Española una copia de la Acción Francesa de Charles Maurras, pero fue algo más que eso: si bien es cierto que el nombre de Acción Francesa pudo servir como inspiradora para la Acción Española, las coordenadas intelectuales eran bien distintas. Así lo señalaba Gonzalo Fernández de la Mora en un artículo de la revista Razón Española: "Acción Francesa era positivista, paganizante, determinista y nacionalista, mientras que Acción Española era iusnaturalista, católica, providencialista e hispánica, o sea, ecuménica. A Maurras le gustaba lo clásico, y a Maeztu lo barroco. Ni siquiera coincidían en la monarquía, porque la francesa era absolutista, mientras que la española era limitada. En el mimetismo nominal y en ciertas afinidades personales se ha apoyado una falsa interpretación maurrasiana de la corriente española [...] Erróneo paralelismo".
 
"El destino de España en la Historia Universal" del P: Zacarías García Villada es el mejor exponente que Acción Española pudo aportar en materia de Filosofía de la Historia. Son veinticinco capítulos de diversa extensión los que conforman este libro. La vasta erudición de su autor nos guía por la historia de España, desde el alborear de su historia hasta nuestros días, para examinar en los capítulos más grandiosos de la misma el caracter eminentemente universalista (católico) de España. Estamos ante un libro de Filosofía de la Historia (que, como "La ciudad de Dios" de San Agustín o el "Discurso sobre la Historia Universal" del P. Bossuet, participa de una concepción providencialista del decurso de las sociedades).

García Villada pretendió satisfacer una demanda intelectual para Acción Española: "concretar con precisión, con dialéctica, y sobre base histórica escalonada e irrefragable, cuál es el destino de España en la Historia Universal". Preguntarse aquí por el destino de España, como se entenderá, no significa adivinar su futuro a manera de un augur; lo que se pretende es superar la curiosidad por los hechos históricos, para "reflexionando sobre ellos" estudiar "las leyes generales que rigen su desenvolvimiento", pues es de esta forma como puede influir en las directrices sociales, transfigurando la realidad al dotarse de valor social.

Adentrándose así en la historia de España, lo que García Villada descubre es la vocación universalista que se patenta en España como vector constante: "cobijar bajo su mando a todos los pueblos del mundo". No se trata de un estrecho nacionalismo ni de un bastardo imperialismo egoísta, sino que es expresión de la catolicidad (universalidad) de España, cuyo destino ha sido desde lo más remoto, abrazar el cristianismo y propagarlo por el orbe: "En armonía con este fin sobrenatural [la felicidad eterna en los cielos] de cada Individuo está el fin peculiar de la Colectividad o de las Naciones. Este no yace encerrado en ellas mismas, sino que las trasciende".

García Villada descubre en el carácter nacional las notas de "universalidad" y "particularismo". El particularismo, su egoísmo y mezquindad, han supuesto siempre la perdición de España, mientras que el universalismo ha sido el impulso que la ha llevado siempre a más grandes destinos: los emperadores romanos de origen hispano (Trajano, Marco Aurelio) rigieron el Imperio Romano con recia mano hispánica, hasta tal punto que pudiéramos decir que, extranjeros en Roma, los españoles fuimos más romanos que los mismos romanos; más tarde se diría aquello, muy similar, que tanto le gustaba repetir a D. Álvaro d'Ors: los españoles somos "más papistas que el Papa".

García Villada ve el sentido hispano y universalista en aquellos emperadores hispanos de la pagana Roma, lo mismo que en el primer poeta del cristianismo, nuestro Aurelio Prudencio (vascón) y el lusitano Paulo Orosio y, más tarde, San Leandro y San Isidoro de Sevilla. La fundación de España no está, como algunos indocumentados sostienen a día de hoy, ni en 1812 ni menos todavía en 1978. Ahí -decimos nosotros- están sus extravíos.

España es la más antigua de las naciones: "La nación española nació y se afirmó, políticamente, el año 573, bajo el cetro de Leovigildo, y espiritualmente el 8 de mayo de 589, bajo Recaredo" -nos dice García Villada. En efecto, Leovigildo unificó el territorio y derogó la ley que prohibía los matrimonios mixtos (entre hispano-romanos y visigodos) y, en una segunda fase, asistimos a la unificación religiosa merced a la conversión de Recaredo (secundado por la mayoría de su pueblo godo) en el III Concilio de Toledo: 8 de mayo del año 589.

"El Estado era una organización Teocrático-aristocrática, muy parecida a la del pueblo de Israel, con su Monarca, ungido por la Iglesia para darle cierto aspecto de inviolabilidad. Ese Monarca y el Aula Regia, compuesta de los magnates seculares y de los Obispos, son los que, reunidos en Concilios o Asambleas mixtas, dirigen al pueblo, pero esta dirección va encaminada siempre, ideal y realmente, a la consecución del bienestar de ese pueblo, en el que entra, ante todo y sobre todo, la defensa de su fe. Por eso consideran fuera de la ley a toda religión que no sea la Católica".

La unidad de España, por lo tanto, se alcanzó en una fecha tan temprana que, cuestionar esta unidad en virtud de particularismos lingüísticos, culturales, etcétera solo podría pasársele por la cabeza a un moderno. Lo que destruiría esta unidad tempranamente alcanzada sería la irrupción del mahometanismo en el año 711 que vino a invadir España y dominarla durante ocho siglos. En esos ocho siglos se asistirá a una "guerra divinal"* contra el invasor: los españoles, desde Asturias y otros focos, pugnarán por la restauración de la Hispania Gothorum para cumplir su destino providencial. Por eso, aunque en nuestra anómala Edad Media surgen regiones con distintas lenguas y costumbres, en los momentos álgidos, todos reconocen al descendiente del trono astur-leonés-castellano como Emperador de las Españas y apenas hay disputa en ello, pese al celoso egoísmo de algunos que siempre hostigaron la unidad de España por defender sus intereses propios.

La toma de Granada marcará la fecha de nuestra reconstitución nacional. El descubrimiento de América ensanchará nuestros horizontes, para la propagación de nuestra lengua y nuestra Santa Fe Católica. La expulsión de los judíos y, más tarde, de los moriscos, además de conveniente, fue beneficiosa. La Inquisición seguiría velando por la integridad religiosa de la nación, vigilando a los falsos conversos que corrompían nuestra moral nacional y salvándola de la contaminación pestilencial del protestantismo extra-pirenaico. Carlos I de España, el Concilio de Trento, la Compañía de Jesús, Felipe II... en todo ello se manifiesta la universalidad de España que estuvo a punto de realizar el gran sueño de nuestro Siglo de Oro (la restauración de la mítica Edad de Oro que anhelaba Don Quijote de la Mancha, que cantaba el Capitán Aldana y Hernando de Acuña), a saber, en formulación del soneto oracular de Hernando de Acuña: "una grey y un pastor solo en el suelo", "un Monarca, un Imperio y una Espada".

La decadencia vendría después. Pero todavía peor que la pérdida del poderío "es la desviación del espíritu nacional" -dice García Villada; y el autor nos cita literalmente un párrafo del escritor francés Louis Bertrand que dice, nada más y nada menos, lo siguiente: "Bajo la influencia extranjera, y en particular francesa, perdió el alma española su unidad moral y aun su unidad intelectual, que en el reino del arte y en el del pensamiento habían creado obras sin par. Ideas exóticas la combaten, ideas que serían el fermento de las próximas revoluciones, que conmoverán durante todo el siglo XIX y los tiempos actuales a la Península Ibérica".

Las elites se han intoxicado de extranjerismo: "Los políticos, los literatos, los filósofos de los siglos XVIII y XIX van casi todos unidos al carro francés. De allí nos traen el enciclopedismo, el liberalismo y la democracia, erróneos en sí mismos, y opuestos al carácter español".

Para García Villada, en la España de los años 30 del siglo XX, solo hay dos grandes bloques antagónicos, dos ideas con "eficacia suficiente para retener dentro de sus cuadros... a una parte de nuestros compatriotas": el Tradicionalismo y el Socialismo, mientras que "las otras tendencias se acomodan a un lado y a otro, según los vientos que soplan. Son los Judas o los Pilatos". Para nuestro filósofo de la historia "El Tradicionalismo, que sostuvo dos guerras civiles por el ideal genuino español, a costa de su sangre y de su dinero" es la representación de la Ciudad de Dios, en términos agustinianos, mientras el socialismo encarna la Ciudad del Diablo.

El gran drama en que se debate España en los prolegómenos de la Guerra Civil consiste en la incapacidad que muestran sus líderes políticos y sociales por ofrecer un ideal a España. Pero como estos ignoran su historia y su carácter propio van a buscarlo fuera y lo encuentran en "folletos extranjeros"; "y pretenden, tanto en la derecha como en la izquierda, convencer a la masa con nombres y teorías ininteligibles". A esto hay que sumarle "la pérdida del espíritu genuinamente religioso" y nótese aquí que García Villada no reprocha solo a las políticas laicistas republicanas esta pérdida, sino que reprocha a esos católicos tibios que "van a misa como quien va a dejar una tarjeta a casa de un amigo: por cumplimiento". En cuanto a las políticas anticatólicas que sistemáticamente ejecuta la II República, García Villada entiende que la aniquilación de la enseñanza religiosa supone la "decapitación de nuestra historia".

Las dos grandes causas psicológicas de nuestra decadencia son la incapacidad de las elites dirigentes y la envidia con su rencor:

"La incapacidad es el gran defecto de los que están al frente de los destinos de España. Quieren formar una nueva conciencia nacional, y ni saben, ni aciertan a hacerlo".

"La incapacidad del Estado español para dirigir a la nación es algo que está en la conciencia de la mayoría de los ciudadanos. Ejemplo palmario lo tenemos en la enseñanza oficial, convertida en granjería de una buena parte de catedráticos... Claro que esto indica que la sociedad que lo patrocina o lo consiente no está a mayor nivel".

La envidia "es otro de los corrosivos de nuestra nacionalidad" y a la envidia le va a la zaga el "rencor": "Toda nuestra historia está plagada de efectos funestos producidos por esta pasión".

España ha sido apeada de la historia: "Hoy ni como pueblo, ni como individuos figuramos para casi nada en la marcha de la Humanidad. Hemos perdido la dirección en los asuntos internacionales y, más aún, en el pensamiento universal. Queremos rehacernos, pero no damos con el camino". Para solucionar la cuestión no cabe, según García Villada, sino la fidelidad a lo que fuimos y somos: "Antes de emprender nuevas conquistas, es preciso que España se recobre a sí misma, no con laicismos, ni con posibilismos estériles, sino con integralismos plenos y fecundos".

VALORACIÓN

He querido ofrecer una aproximación a "El destino de España en la Historia Universal" del P. Zacarías García Villada, animando con ello a la adquisición de este libro y a su estudio. Este artículo no es, por lo tanto, un exhaustivo estudio del libro de García Villada. Después de una primera lectura de "El destino de España..." creo que el libro merece estar a la altura de la gran obra maestra de D. Ramiro de Maeztu: "Defensa de la hispanidad" y de la no menos hermosa de D. Manuel García Morente: "Idea de la hispanidad".

La actualidad y vigencia de "El destino de España..." es innegable por la enorme falsificación que de España se ha operado desde 1978. Se ha practicado una sustitución de la religión católica por el fundamentalismo democrático, elevando a dogmas ciertos tópicos que pasan por valores intocables. Cuando estos sujetos que campan a sus anchas en el espacio público y en nuestras televisiones invocan los "valores democráticos" como contención (por ejemplo, del terrorismo islámico) es imposible no reírse, aunque la cosa no sea para risa. Frente a una amenaza como esa, invocar los valores democráticos, liberales y laicistas es como querer defenderse de las balas poniendo un papel delante.

Capítulo especial merecerá la consideración del catolicismo post-conciliar en su relación con el destino de España. Si España tiene como destino providencial la Monarquía Universal (Católica), como se desprende del precioso libro del P. García Villada, es impracticable tal destino mientras las altas jerarquías clericales (no solo de España, sino de la misma Ciudad Eterna) no vuelvan a la rectísima doctrina católica.

El veredicto final de García Villada nos interpela:

"España, Católica oficialmente, será también el brazo del Universalismo y de la Catolicidad. España, atea o laica oficialmente, no será nada y se derrumbará...".

Nosotros somos más pesimistas todavía: España no puede ser católica estrictamente mientras la Iglesia Católica española no sacuda de sí sus complejos y reintegre perfectamente la misión espiritual con la misión política de España.



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*Guerra divinal: así denominó a la Reconquista nuestro Alonso de Cartagena (1384-1456), humanista, historiador y diplomático. El mismo autor señalaría la singularidad ibérica de esta guerra.


BIBLIOGRAFÍA:


Zacarías García Villada, "El destino de España en la Historia Universal", Tercera Edición Aumentada, Gráficas Nebrija, Madrid, 1948.

Luis García Iglesias, "El P. Zacarías García Villada, académico, historiador y jesuita", Universidad Pontificia de Comillas, Madrid, 1994.